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anno 2013

 

La Voce del Brembo

di Ivano Sonzogni

Fu una gloriosa rivista, «La Voce del Brembo», l’unica che ebbe una certa diffusione tra la Valle Brembana e la Valle Imagna e non fu per questo “localistica”, ma seppe integrare l’informazione locale e quella nazionale e internazionale: una rivista, quindi, vera!

Tale periodico fu promosso da Bortolo Belotti nel 1913 all’indomani della decisione di candidarsi a quelle elezioni politiche, che lo avrebbero visto vincitore di misura sul deputato uscente Egildo Carugati, e fu pubblicato con regolarità fino al 1917 (nel 1919 venne poi pubblicato un numero speciale). Ma nonostante la sua rilevanza non è stato oggetto di studi specifici finora e lo stesso Belotti dedicò a questa sua creatura solo una brevissima citazione nella Storia di Zogno. Eppure fu pubblicata in un periodo particolarmente interessante per la società italiana, quello giolittiano, e trattò anche temi di ampio respiro, mentre ad esempio la rivista concorrente, il quindicinale «Le Valli Seriana e Brembana», si limitava a registrare quasi esclusivamente i fatti di cronaca della valle e il «Giornale di San Pellegrino» dedicava la maggior parte dello spazio all’elenco dei villeggianti.

La testata

Un gruppo di persone, che ha pensato di far sorgere fra noi un giornale che sia tutto delle valli del Brembo, è partito dalla constatazione del bene tangibile che per una regione può fare una stampa locale, sia pure modesta, ma buona e volenterosa”. Così iniziava l’articolo di apertura della nuova rivista nel primo numero del 25 maggio 1913 e, dopo aver notato il campo limitato di quelle che definisce “simpatiche pubblicazioni” che già esistevano in Valle, come l’«Alta Valle Brembana», e l’episodicità con cui i maggiori giornali della provincia si occupavano della nostra zona, il direttore sintetizzava così l’impostazione: “Oltre il gretto intendimento di una speculazione commerciale, e sopra i partiti che possono dividere gli animi, i promotori di questo giornale hanno intraveduto qualche cosa di più nobile l’intento di far conoscere a noi stessi e far amare ed aiutare e sospingere verso il miglior avvenire queste nostre valli”. Seguiva l’invito ai lettori a contribuire all’elaborazione della rivista, in particolare a quelli che potevano “ridire una parola della nostra storia” e soprattutto a quelli che avevano conoscenza di problemi vallari e idee per risolverli. Si rivolgeva infine ai corrispondenti invitandoli alla “coscienziosa esposizione del vero” e “alla più spassionata obbiettività nei giudizi” ed elencando anche gli ambiti, quello amministrativo o politico e, poi, relazioni, recensioni e fatti salienti di cronaca.

La rivista si presentava come “sopra i partiti”, e in terza pagina rivolgeva un chiaro invito a sostenere Bortolo Belotti che alle elezioni del 26 ottobre successivo si presentava, pur liberale e cattolico, contro le strutture ufficiali dei liberali moderati e dei cattolici alleate nel collegio a sostegno della candidatura Carugati.

Il titolo del periodico richiama con evidenza «La Voce» fondata a Firenze da Giuseppe Prezzolini nel 1908, tra le riviste più importanti d’inizio secolo, che univa all’interesse per la letteratura quello per la politica e trattava argomenti quali la scuola, il suffragio universale, l’irredentismo, la questione meridionale, il femminismo e il decentramento amministrativo. Il “Brembo”, che compare nella testata, richiama l’ambito dei destinatari e quasi fa il verso a «Il Serio», periodico fondato e diretto per qualche tempo da Enrico Belotti, fratello di Bortolo. Il sottotitolo è ancora più chiaro: “Organo settimanale degli interessi delle Valli e Convalli Brembane e della Valle Imagna”. Il giornale si fece portavoce degli interessi locali, ma questi non sembrano limitarsi a quelli economici. Per questi, poi, si riconosce che il territorio interessato non era un’unità omogenea e indistinta, ma era costituito da peculiarità insopprimibili. Siamo peraltro in un periodo in cui i tentativi governativi di costituire unità amministrative più ampie dei piccolissimi comuni brembani d’inizio secolo si scontravano con le resistenze delle popolazioni locali, come a Fuipiano e Pernazzaro, contrarie alla fusione con San Pellegrino.

Questa attenzione spasmodica all’ambito locale avrebbe poi contribuito all’accusa rivolta a Bortolo Belotti di voler proclamare “la Repubblica Brembana Indipendente” e significativamente la medaglia commemorativa della campagna elettorale portava il motto “Valli nostre”.

Le indicazioni geografiche del sottotitolo ci rinviano, infine, al collegio elettorale, per il quale il Belotti aveva posto la propria candidatura alla Camera dei Deputati nel 1913. E, in effetti, la rivista nacque prioritariamente per sostenere la candidatura Belotti, ma non doveva esaurirsi in questo.

Il contesto della fondazione: la campagna elettorale del 1913 

Per comprendere la nascita della rivista e la sua specificità, occorre ripercorrere gli avvenimenti di quegli anni. Da tempo Bortolo Belotti intendeva dedicarsi all’attività politica: l’ingresso fu preparato con cura, attraverso l’inserimento soprattutto nella Milano-bene, azionista di diverse e importanti società, esponente del Cenacolo degli avvocati, della Società della Pace, consigliere del Touring Club, promotore dell’Associazione Italiana dei Giuristi ed Economisti. Nel 1908, poi, era stato eletto al Consiglio Comunale di Milano (dove sarebbe stato rieletto anche nel 1911), ma già con il progetto di candidarsi alle politiche successive: il senatore Silvio Crespi gli avrebbe promesso il sostegno dei liberali per il seggio della Val Brembana, occupato fin dall’anno 1900 da Egildo Carugati e lo stesso Carugati sarebbe stato favorevole a cedere il seggio al Belotti nel 1913 in cambio del sostegno dell’avvocato zognese alla sua campagna elettorale del 1909.

Comunque, pur risiedendo stabilmente a Milano, il Belotti manteneva forti rapporti con Zogno, di cui era stato consigliere comunale fino al 1912, e in prossimità delle elezioni li rafforzò: importante furono il suo contributo all’Asilo Cavagnis nel 1911, l’aiuto per ottenere i finanziamenti per la costruzione dell’edificio delle scuole elementari, la fondazione della Pro Zogno, attiva nella promozione dell’economia e del turismo locale, e, infine, l’acquisto di villa Cacciamali a Zogno per farne la propria residenza in loco. In occasione delle precedenti elezioni provinciali di Bergamo si era ritirato per lasciare spazio al Rezzara, uomo forte dell’azione sociale cattolica nel bergamasco, forse con l’intento di ingraziarsi i cattolici, a Bergamo stretti alleati dei liberali di destra e lo stesso Rezzara era stato il garante dell’accordo Belotti-Carugati del 1909.

In quegli stessi anni a livello nazionale si introdusse la legge Daneo-Credaro, che favorì l’alfabetizzazione con il conseguente aumento dei lettori di riviste e di potenziali elettori; quindi il suffragio universale maschile che permise alle masse di acquisire il diritto di elettorato attivo e passivo. E’ comprensibile in questo contesto il cosiddetto “Patto Gentiloni”, stretto tra cattolici e liberali basato sul sostegno cattolico a quei candidati liberali che si impegnassero ufficialmente a votare in alcuni ambiti (scuola, famiglia, enti locali…) in linea con le gerarchie ecclesiastiche. Con questo presupposto, la Chiesa cattolica passò dal vietare ai propri fedeli l’esercizio del voto politico all’imporre il voto per quei candidati cattolici o liberali che avessero sottoscritto il patto per sconfiggere eventuali candidati anticlericali radicali, socialisti o repubblicani.

Nella bergamasca si ebbe quindi questa situazione alle elezioni del 1913: nel collegio cittadino fu proposto il conte Giuseppe Luigi Malliani, già sindaco liberale a capo di una maggioranza cattolica, che sostituiva il deputato liberaldemocratico Attilio Rota, cattolico ma eletto nel 1907 da uno schieramento prevalentemente anticlericale; a Caprino dovette essere confermato l’industriale tessile Silvio Crespi, di orientamento giolittiano; a Clusone l’avvocato cattolico transigente Paolo Bonomi, già presidente cattolico della Provincia grazie al sostegno dei liberali di destra; a Martinengo il conte Giacinto Benaglio, in passato su posizioni anticlericali; a Trescore il conte Gianforte Suardi che, pure contestato dai cattolici, era stato l’artefice nel 1904 del primo accordo nazionale tra moderati e clericali e che ottenne il sostegno elettorale della curia contro il repubblicano Gildo Frigerio e il socialista Carlo Zilocchi.

In verità l’ufficio elettorale cattolico bergamasco avrebbe voluto nel collegio di Caprino un proprio candidato (il sindaco cittadino cattolico G.B. Preda) e, non essendoci riusciti per la forte opposizione liberale che minacciò di mettere in crisi l’amministrazione comunale di Bergamo, tentarono di piazzare a Zogno un loro uomo, l’avv. Luigi Locatelli, che proveniva dall’esperienza progressista della democrazia cristiana, contando sul voto dei liberali di destra, ma così facendo saltava l’accordo con il Belotti.

Era chiaro che i cattolici bergamaschi tentavano di estendere la loro rappresentanza politica gradualmente su tutti i collegi sulla provincia, riducendo gli spazi dei liberali, che pure erano loro alleati a livello locale: il fatto che questi accettassero di perdere il collegio di Zogno per salvare il Crespi è chiaro sintomo delle loro difficoltà.

Belotti, quindi, dovette scegliere se accettare la situazione creatasi e tentare una candidatura ancora più difficile a Milano o ribellarsi agli accordi locali tra clericali e liberali e candidarsi. Fu questa ultima la scelta assunta, ma per avere qualche possibilità di riuscita dovette investire parecchio in una campagna elettorale che si prefigurava oltremodo difficile: ecco allora la costituzione di un comitato elettorale costituito dalle personalità di spicco della valle Brembana e la fondazione di un settimanale inizialmente inviato gratuitamente agli elettori potenziali. Di fronte alla candidatura Belotti la Curia di Bergamo dovette abbandonare l’ipotesi Locatelli e affidarsi di nuovo al Carugati che poteva vantare su un considerevole sostegno di parte liberale, in particolare degli imprenditori locali. Il gioco, poi, era simile a quello tentato anni prima a Bergamo con la candidatura del Piccinelli, industriale di successo ma di età avanzata, che avrebbe assicurato di lasciare presto il seggio parlamentare ai cattolici che lo avevano sostenuto. Fu temporaneamente sconfitta, quindi, la linea politica del settore più progressista della curia bergamasca, rappresentata dal vescovo Radini Tedeschi, dal suo segretario Angelo Roncalli, dal Rezzara e dal direttore dell’Eco di Bergamo Clienze Bortolotti e vinse la tattica del conservatore Stanislao Medolago Albani, favorevole ad uno stretto rapporto con i moderati per costituire un blocco dei partiti d’ordine e frenare le fughe in avanti di certi cattolici.

D’altra parte Belotti era di fede cattolica, ma non poteva risultare “schiettamente cattolico” agli occhi dei clericali in quanto esponente liberale e non componente degli organismi costituiti sul territorio dai cattolici.

Ettore Janni, direttore del «Corriere della Sera», primo biografo del Belotti, ricorda che l’opposizione del clero bergamasco alla candidatura Belotti era da mettere in relazione con il fiero attacco del padre Cesare al parroco di Zogno che si era rifiutato di commemorare il re Umberto I ucciso a Monza. Tuttavia pare limitativa la motivazione. Belotti era pienamente inserito in quell’ambiente della borghesia zognese che aveva aderito con entusiasmo al Risorgimento e in particolare ai moti del 1848 e all’impresa dei Mille: è sintomatica, a questo proposito, la dedica della piazza Centrale del paese a Garibaldi, all’indomani della scomparsa. Belotti aveva una visione decisamente laica della vita sociale e politica, come appare già nel 1905 nel saggio dedicato al centenario del Codice napoleonico. Ricordava il nostro politico che “la Rivoluzione Francese aveva soppressa l’ingerenza spirituale nei rapporti civili, ed ecco il titolo preliminare del codice tutto preoccupato di richiamare il giudice all’applicazione rigorosa delle leggi dello Stato”. In questo testo, poi, il riferimento alla laicità dello Stato si aggiunge all’esaltazione delle conquiste della Rivoluzione Francese e, ancor più, dell’opera modernizzatrice di Napoleone: se facciamo mente locale ai forti contrasti tra la Chiesa Romana e lo Stato francese a cavallo tra ‘700 e ‘800, possiamo capire i motivi dell’opposizione dell’ambiente clericale bergamasco alla candidatura Belotti nel 1913. Per questo motivo uno dei temi ricorrenti dei primi numeri della «Voce del Brembo» era quello religioso. In particolare nel discorso elettorale pronunciato a San Pellegrino, sicuro di trovare il proprio pensiero condiviso dai suoi sostenitori, dichiarò: “Sono francamente per il sentimento della religione: di una religione che sia professata nobilmente e senza mire di personali interessi che la offendono, che sia come tale serenamente insegnata anche nella prima scuola dove si prepara l’anima del cittadino, e che del cittadino sia sinceramente considerata come patrimonio morale. Così la religione può essere … fuoco che scalda le pareti domestiche, legame su cui può far calcolo lo Stato quando si presenti il bisogno di chiamare i cittadini a raccolta”. D’altra parte è chiaro indice della laicità del Belotti e dell’ambiente a cui lui si rivolgeva la pubblicazione su «La Voce del Brembo» di numerosi articoli di mons. Geremia Bonomelli sulla distinzione tra fede e politica: il vescovo di Cremona tra i liberali era visto come il sostenitore della pacificazione del cattolicesimo con la società moderna: "Io amo - disse al II congresso cattolico cremonese nel 1904 - che i laici stessi, liberi, per quanto non indipendenti, adempiano i loro doveri di cittadini e di cattolici, in tutte le manifestazioni della vita pubblica".

La diffusione a livello vallare di una proposta politica che non escludesse l’ambito religioso e che, d’altra parte, non confondesse i due ambiti distinti della persona fu tra i motivi di successo della rivista belottiana e della campagna elettorale dello zognese.

La gestione della rivista 

La lunga premessa fatta è necessaria per capire il significato della rivista: si assommavano la necessità di formare anche culturalmente un pubblico di elettori che andasse oltre il ristretto numero degli amministratori locali tradizionalmente liberali e la necessità di presentare un programma elettorale rassicurante per il suo moderatismo del “progredire per conservare”.

Questi scopi vennero perseguiti grazie al settimanale «La Voce del Brembo», che iniziò le pubblicazioni il 25 maggio del 1913 e proseguì fino alla fine del 1917 per un totale di 163 numeri a cui si deve aggiungere un numero speciale del 1919. «La Voce del Brembo» fu fondata ufficialmente da Bernardino Belotti, fratello di Bortolo, che costituì allo scopo una società in accomandita semplice; fu diretta in un primo momento dallo stesso Bernardino che, come ci riferisce Ettore Janni, era ad un tempo “direttore, correttore di bozze, impaginatore e, naturalmente, scrittore”. L’altro fratello, Enrico, intervenne invece molto sporadicamente nella vita della rivista, ormai impegnato nei suoi studi di veterinaria, che lo avrebbero poi portato ad ottenere la prima cattedra italiana di Mutualità Veterinaria a Torino.

Fu lo stesso Bernardino che, in una pubblicazione sulla Banda di Zogno, ricordò gli inizi nella tipografia milanese di via Tre Alberghi, “dove, ogni venerdì, un giovane zognese ne è direttore, cronista, correttore di bozze, impaginatore e speditore, e sul viscido pancone ingombro di carte e di caratteri di piombo, talvolta è gomito a gomito con un pubblicista di tendenze estreme, tarchiato, olivastro: si chiama Mussolini”.

Sempre lo Janni ricorda, a proposito della campagna elettorale condotta dalle pagine della «Voce», che Bernardino, “esasperato dalla mala fede degli avversari, capitanati dal famigerato Rezzara, scriveva un articolo violento contro di essi, per isfogarsi, poi lo lasciava da parte e ne scriveva un secondo con più sicuro dominio di se stesso, preoccupato del miglior metodo di lotta in vantaggio del fratello”. Il quadro che lo Janni ci presenta di Bernardino fa sì che noi lo possiamo identificare nel curatore della rubrica “Piccole Polemiche” e che talvolta si firma Zack, solo sul nº 16 del 12 luglio 1917 troviamo un articolo firmato esplicitamente Bernardino Belotti, intitolato Diogeni.

Dal novembre del 1915, quindi, grazie all’interessamento dell’oste zognese Agostino Carminati, la direzione passò a Guido Galignani, segretario comunale di Zogno e in precedenza membro del comitato elettorale del Belotti. Questi diresse la rivista probabilmente in modo continuativo fino alla sua chiusura: dal 17 giugno 1917 alla fine la firma esplicitamente come “direttore responsabile”. Possiamo individuare la mano del Galignani nella spiccata attenzione alle questioni amministrative che caratterizza la rivista in tutta la sua durata e che va ben oltre la rubrica Comunalia.

Lo Janni sostenne che avrebbe diretto la rivista anche il prof. Carlo Traini. Questi fu amico del Belotti, insegnante a Zogno, istitutore della locale biblioteca scolastica, fu anche appassionato ricercatore di testimonianze della cultura popolare bergamasca, noto soprattutto per i volumi Superstizioni e leggende bergamasche e Musica e musicisti in Valle Brembana. Collaborò al periodico, firmò a nome del gerente il 24 gennaio 1915 la copia della rivista conservata nella Biblioteca Civica di Bergamo. La direzione Traini potrebbe collocarsi nel 1915 tra quella di Bernardino e la successiva del Galignani.

La sede della rivista venne fissata a Zogno in via Vittorio Emanuele II, al civico 19 e alla stampa provvide in un primo momento la tipografia Codara di Milano, di cui il Belotti si serviva per la stampa soprattutto di memorie giudiziarie. Gaetano Porta risulta il gerente responsabile della società costituita.

La rivista raccolse parecchia pubblicità, in primis della Società San Pellegrino e di diverse strutture alberghiere del centro termale (Albergo Papa, Villa Emilia, ecc.), delle Fonti di S. Omobono, “Birra Sedrina” di Giorgio Ghisalberti e dell’ambulatorio medico di San Giovanni Bianco gestito da Domenico Mocchi, fattivo sostenitore del Belotti e collaboratore della rivista con articoli di medicina. In un secondo momento la pubblicità riguardò prevalentemente negozi e studi medici di Bergamo (i Calderoli, per esempio), ma, anno dopo anno, si differenziò e riguardò anche la produzione artigianale locale (gli abiti di Battista Tiranini, la “Magnesia San Lorenzo” della Chimica Farmacia Mario Brighenti di Zogno…). Particolarmente significativo fu il contributo della Banca Mutua Popolare di Bergamo, banca di marca laico-liberale concorrente del clericale Piccolo Credito Bergamasco e delle casse rurali, che da poco tempo aveva aperto succursali in diversi paesi del collegio elettorale, come Zogno, San Giovanni Bianco, Almenno San Salvatore, Ponte Giurino, Rota Fuori.

Complessivamente la pubblicità occupava un terzo delle quattro pagine della rivista. Questo permetteva di mantenere in limiti contenuti il costo della stessa per cui la singola copia veniva venduta a 3 centesimi, 5 lire era l’abbonamento annuo. Per invogliare alla sottoscrizione dell’abbonamento annuo, il settimanale offriva in omaggio l’«Almanacco Illustrato Pro Pace», un annuario di circa 150 pagine di ispirazione pacifista, pubblicato a Milano dalla Società per la pace e la giustizia internazionali, di cui era stato fondatore Ernesto Teodoro Moneta, premio Nobel per la pace nel 1907 (unico italiano), a cui Bortolo Belotti era associato (ne sarebbe diventato presidente dopo la morte del Moneta).

Passate le elezioni, la proprietà della rivista brembana si trasformò in cooperativa, aprendosi quindi all’apporto di più soci, e si interruppe la distribuzione gratuita; inoltre la stampa venne affidata alla Società Editrice Commerciale, la stessa che stampava il quotidiano liberale cittadino «Il popolo», e fu nominato gerente responsabile Carlo Caroli. Dal primo numero del 1915 la direzione della rivista veniva trasferita al nº 112 di via Umberto I a Zogno e fu stampato dalla Tipografia Giacomo Carrara di via Pietro Ruggeri 396 sempre a Zogno; dal 31 gennaio dello stesso anno il gerente responsabile divenne Giovanni Lucca.

I destinatari della rivista e l’Unione Valligiana 

Dopo le elezioni che portarono Belotti in parlamento, il 16 novembre 1913 la rivista divenne di fatto organo dell’Unione Valligiana, evoluzione del Comitato elettorale zognese pro Belotti. Essa era costituita dalla piccola borghesia locale, imprenditori, medici, commercianti, insegnanti, notai, avvocati, ragionieri e geometri, gli stessi che costituivano l’ossatura delle amministrazioni locali, e che si riconoscono in quelle “famiglie originarie” che storicamente governavano i comuni brembani. Si trattava complessivamente di circa 400 persone i cui nomi compaiono nel Manifesto per la proclamazione dell’avv. Belotti. Erano tantissimi se si considera che erano solo una parte degli attivisti belottiani e se si tiene conto del fatto che gli elettori del Collegio di Zogno erano meno di 10.000. Aderì a questa nuova esperienza buona parte dei sindaci, assessori e consiglieri valbrembanini (e lo stesso Bortolo Belotti era stato consigliere comunale): i notabili locali quindi colsero la candidatura Belotti per organizzarsi, sostenere le rivendicazioni della valle e difendere di conseguenza il loro ruolo nelle comunità locali, ma anche, è opportuno ricordarlo, per rivendicare la dignità umana di una popolazione, quella della Val Brembana, a cui sembrava di dover solo obbedire a scelte operate sempre altrove, anche riguardo la propria rappresentanza politica.

A fronte dello schieramento Carugati-Rezzara, organizzato dai clericali e composto da imprenditori legati al candidato e anche ai crediti concessi dalle casse rurali, lo schieramento belottiano finì per associare liberali di destra, di centrosinistra e anche radicali dell’estrema sinistra che vedevano in Belotti l’ultimo oppositore dell’egemonismo clericale, vi erano anche coloro che non potevano più sopportare l’invadenza di certi preti nei consigli comunali o nell’economia locale tramite le sedi bancarie. Probabilmente i sostenitori dell’avvocato costituivano un gruppo alquanto eterogeneo, tenuto insieme dal collante dell’anticlericalismo, accresciuto dopo le prove di forza elettorali degli anni precedenti e anche dagli scontri sindacali suscitati (si pensi allo sciopero di Ranica del 1909), e ancor più dal profondo senso di libertà di coscienza. Inoltre, tanti fedeli dovevano guardare con sospetto sia il repentino cambio di indirizzo della Chiesa cattolica, che fino a pochi anni prima vietava il voto dei fedeli per poi imporlo, e anche l’utilizzo delle messe, e quindi della fede, per fare propaganda politica.

La dura contrapposizione ideologica lasciò negli articoli della rivista tracce di ferite che si rimarginavano molto lentamente. La rivista, passate le elezioni, invitò alla pacificazione con un eloquente “Deponete le ire!”, ma certi scontri erano giunti fino alle aule del tribunale di Bergamo, ad esempio con la denuncia per calunnia fatta dal parroco di Serina Pietro Ruggeri nei confronti di alcuni belottiani, conclusa con la condanna dello stesso denunciante, e quella del parroco di Berbenno Domenico Calvi, condannato a 3 mesi di reclusione per l’affissione di un manifesto in cui si diceva: “Volete la salute? Bevete il sangue di Belotti”. Altri parroci - riferì polemicamente la rivista - tutt’altro che concilianti avevano licenziato organisti e cantori “belottiani”. Inoltre nel giugno dell’anno successivo era prevista un’altra elezione, quella per il Consiglio Provinciale di Bergamo e di nuovo si proponeva il contrasto tra liberali belottiani e clericali. A Zogno, per esempio Bortolo Belotti si candidò con Giovanni Limonta, in contrapposizione al cattolico Nicolò Rezzara. Furono elezioni in tono minore (vinte anche queste dal Belotti), ma presentarono ugualmente la contrapposizione dell’anno precedente, con «La Voce del Brembo» che denunciava la pubblicità ingannevole dei clericali che distribuivano cartoline con i nomi di Belotti e Rezzara insieme. Le polemiche si stemperarono col tempo, ma ad un avvenimento di portata internazionale come la morte del pontefice Pio X la rivista dedicò sole 8 righe e per l’elezione del successore, Benedetto XV, un’intera colonna per mostrare vizi e vezzi dei pontefici. Ancora nel febbraio del 1915, in occasione della morte del Rezzara, l’anonimo redattore del necrologio pur ricordandolo come “mente chiara” e “organizzatore accortissimo”, rimarcò polemicamente che “Qualche volta anche a lui poté mancare la esatta visione di talune situazioni e la conoscenza precisa delle persone…”.

E’ soprattutto nella cronaca locale che possiamo cogliere il livello di contrapposizione tra i due schieramenti: interessante è la riflessione sulla costituzione di una cooperativa di consumo a Villa d’Almé nel giugno 1914, ribattezzata popolarmente “ol boteghì de la vendetta”, in cui «La Voce del Brembo» vede una contrapposizione insieme sociale e politica tra i cattolici e “la classe degli esercenti” che si era schierata per Belotti. Evidentemente le scelte del ceto medio e dirigente di schierarsi contro le direttive della gerarchia cattolica stavano favorendo il sorgere di un risentimento tra i diversi strati sociali di Villa. E’ per ora difficile stabilire quanto questo risentimento si traducesse in coscienza politica, certo l’ambiente del Belotti appare preoccupato per uno scontro che tendeva a radicalizzarsi, tanto più che a Villa d’Almè già da tempo si erano sviluppate forme di protesta dei lavoratori della terra.

Ma ormai più che la morte del Carugati e del Rezzara, la guerra con le sue urgenze e con i suoi immani drammi necessariamente distoglieva l’attenzione da quelle che apparivano piccolezze; la guerra inoltre impose il rinvio delle elezioni politiche, per cui si giunse con il 1919 addirittura ad una collaborazione tra i Popolari e il Belotti, favorita anche dalla possibilità del doppio voto, per cui molti valligiani poterono votare per il partito cattolico e porre la preferenza per l’esponente liberale locale. Si può intravedere in questo accordo quell’incontro tra movimento cattolico e conservatorismo laico che avrebbe caratterizzato poi buona parte della storia vallare del ‘900.

Nel frattempo, però, man mano si attenuava la polemica con i clericali bergamaschi, montava la critica nei confronti di Giolitti, al punto che le sue dimissioni nel 1914 vennero viste come una liberazione. Ma perché l’opposizione nei confronti dello statista piemontese? Certamente i liberali locali non potevano dimenticare il Patto Gentiloni, che per loro aveva significato il rafforzarsi di interessi di politica nazionale a scapito di quelli locali, e il fatto che Giolitti avesse appoggiato il Carugati, il quale non a caso concludeva i suoi comizi sottolineando la sua dedizione al Presidente del Consiglio. Probabilmente i belottiani non potevano tollerare neppure l’apertura giolittiana ai socialisti e alle richieste del mondo dei lavoratori dipendenti, che si traduceva anche nella libertà d’organizzazione sindacale e della neutralità dello Stato nei conflitti di lavoro e nella conseguente libertà di sciopero. In Val Brembana i grandi lavori come la costruzione del canale Conti e della ferrovia avevano portato con gli operai forestieri anche le prime esperienze di sciopero del biennio 1903-04, le quali dovevano aver non poco spaventato i notabili locali. Teniamo presente che proprio nel periodo considerato, lo stesso Belotti difendeva industriali accusati di contravvenire ai limiti legislativi in materia di lavoro femminile, minorile e notturno.

L’opposizione a Giolitti avveniva anche sul piano della politica fiscale: l’attenzione del tutto nuova per la massa popolare significava necessariamente un aggravio fiscale per i ceti medi e si temeva in particolare per i piccoli proprietari terrieri, coltivatori e allevatori, ampiamente rappresentati in Valle Brembana: argomento questo trattato da «La Voce del Brembo» e presente nei discorsi parlamentari di Belotti.

Con l’aprile del 1914 tornò il dibattito politico sulla rivista: la sconfitta parlamentare di Giolitti e l’approssimarsi delle elezioni provinciali imposero una nuova riflessione sulla politica nazionale e locale. Tullio Gervasoni, sindaco di Baresi e già insegnante di Belotti al Liceo Sarpi, aprì il dibattito con un intervento del 26 aprile dal titolo I compiti nuovi dell’Unione Valligiana, in cui segnò la necessità di un ricambio anche a livello locale dei rappresentanti politici, indispensabile per ottenere una maggiore attenzione ai problemi specifici della Valle Brembana. Richiese poi il differimento all’inverno delle elezioni, onde far partecipare i numerosi emigranti. Belotti, a dimostrazione di quel forte legame che si era instaurato tra gli interessi del territorio e il rappresentante politico, sollevò la questione in un dibattito parlamentare sull’ordine pubblico. Il Consiglio di Stato, interessato dal Presidente Salandra, rispose affermativamente, anche se la norma non poté essere applicata per la Valle Brembana in quanto i paesi non erano stati autorizzati per tempo dalla Giunta provinciale controllata dai cattolici. Il Belotti ancora intervenne alla Camera con un discorso sulla tassazione, in modo particolare per chiedere la diminuzione delle imposte sulle acque minerali, ed è chiaro il riferimento alle necessità dell’economia locale. E ancora ricordiamo i passi fatti a Roma per la strada Villa d’Almè-S.Omobono.

Insomma, gli amministratori locali legati all’Unione Valligiana ritenevano che lo Stato avrebbe dovuto occuparsi non tanto di acquisire il controllo di industrie, creando così monopoli che avrebbero ostacolato l’attività privata, quanto di supportare gli enti locali nella costruzione delle infrastrutture indispensabili per lo sviluppo economico e civile della popolazione. Avanzarono quindi le richieste di contributi per la costruzione di edifici pubblici, di scuole, acquedotti, strade, linee telegrafiche e telefoniche, per il prolungamento della ferrovia oltre San Giovanni Bianco o per la sua costruzione in Valle Imagna. Chiedevano attenzione anche per quelle fasce di popolazione, come gli emigranti, che caratterizzavano la nostra valle e per i quali il giornale chiedeva assistenza e protezione. “Né vanno dimenticati - ribadiva il direttore - gli interessi locali che riflettono più direttamente i comuni e che vanno dal sempre maggiore sviluppo dell’istruzione elementare, dalla diffusione delle pubbliche biblioteche, ai miglioramenti di servizi stradali, alla maggior diffusione delle illuminazioni elettriche, alle benefiche condutture delle acque potabili ed a tutti quegli speciali servizi sociali che sono il primo indice del civile risveglio di un popolo”. La rivista, addirittura nel primo numero, aveva posto la questione dell’istituzione di un ospedale, che avrebbe potuto sorgere grazie all’intervento della beneficenza ospedaliera della Cassa di Risparmio delle Provincie Lombarde e aveva proposto di discutere l’opportunità di istituirne o due, a Zogno e a Piazza Brembana, o uno, probabilmente a San Giovanni Bianco; la questione rimase irrisolta e venne ripresa più volte fino alla vigilia dell’ingresso dell’Italia nel primo conflitto mondiale. Sorprende l’attualità di certe questioni poste all’attenzione dell’opinione pubblica brembana, tra cui anche quella della diffusione delle biblioteche pubbliche, esperienza che iniziava solo allora a farsi strada grazie all’intervento di associazioni umanitarie. Tali questioni venivano rimarcate più volte e ciò rende ancor più evidente che redattori e principali lettori erano gli amministratori comunali locali: con molta chiarezza, per esempio, nel nº 2 del 1915 si rimarcava che “i municipi oggi sono funzioni di sovranità: integrano l’opera degli individui e delle famiglie in campo intellettuale morale, nella prevenzione e nell’assistenza igienica e sanitaria, tutelano il lavoro… promuovono scuole, biblioteche, conferenze popolari, insomma hanno completato e qualche volta sostituito l’opera deficiente dello Stato”. A tal proposito denunciava che rimaneva aperta la questione finanziaria: “E’ vero che lo Stato - che assorbe gran parte delle energie economiche dei Comuni addossando sistematicamente ad essi mansioni e dispendi senza corrispettivo - in queste contingenze ha messo a disposizione qualche somma, ma è così sproporzionata ai bisogni che ben può dirsi vana e trascurabile”.

Quelli che compaiono negli articoli della rivista erano amministratori estremamente pragmatici, aperti però anche alle necessità culturali della popolazione e che accettavano l’avocazione dell’istruzione elementare allo Stato, perché comportava l’impegno finanziario dello Stato nella costruzione delle scuole anche nei piccoli centri; e si preoccupavano più che la scuola funzionasse (vedi l’annosa questione della difficoltà del Provveditorato di Bergamo ad assumere i supplenti per tempo) e meno dell’insegnamento del catechismo nella scuola elementare. Paradossalmente le richieste politiche dell’Unione Valligiana ricalcano proprio il primo programma di governo di Giovanni Giolitti volto al decentramento amministrativo e alla collaborazione da istituirsi con i corpi locali (è di questo periodo la Associazione Italiana dei Comuni!) lasciando allo Stato la realizzazione delle grandi opere, come quelle allora urgenti di bonifica, o nuovi servizi come la previdenza sociale per gli operai, come si può cogliere anche nel discorso elettorale di Caraglio del 1897.

Evidentemente l’opposizione di un settore consistente dell’Unione Valligiana a Giolitti è da riferire ad un’insofferenza generalizzata nei confronti dello statista che dominò per due decenni la vita politica italiana che dovette crescere man mano che maturavano ben precise scelte politiche a livello locale.

I temi: la questione femminile 

Tra gli argomenti rilevanti trattati dalla rivista, il cui interesse sarà assorbito dalla guerra mondiale, troviamo l’emigrazione, intesa inizialmente come una risorsa economica per la valle, la cronaca locale, compresa la strage di Simone Pianetti, e la questione femminile. Questa era stata suscitata soprattutto dal movimento inglese delle suffragette e dalla fondazione del movimento l’Unione Sociale e Politica delle Donne (WSPU), dopo i successi ottenuti negli Stati Uniti, dove le donne sono ammesse al voto fin dal 1870 nello Wyoming, e successivamente in Nuova Zelanda e in Australia. In Italia nel 1908 si era tenuto a Roma il primo Congresso delle donne italiane con la partecipazione di ben 1400 delegate, ma una riflessione vera e propria viene fatta a partire soprattutto da richieste avanzate da alcune donne di adire certe professioni quali l’avvocatura: la risposta negativa della Corte di Cassazione di Roma alla domanda di Teresa Labriola nel 1913 amplificò la discussione, finché fu ripresa e sostenuta dal Partito Socialista, che nel 1914 avanzò la prima proposta di legge, dopo che la commissione parlamentare voluta da Giolitti nel 1907 si era espressa anche contro la concessione del voto sia politico sia amministrativo.

Anche per questo argomento la lettura della «La Voce del Brembo» si presenta interessante perché ci prospetta una riflessione a livello vallare più articolata e più differenziata rispetto a tanti altri temi. La bergamasca si era da tempo interessata a questa grande questione del nostro secolo: ricordiamo la Lega Operaia e l’Unione delle Donne Cattoliche che si affiancarono alla preesistente Società Femminile di Mutuo Soccorso. Sulla rivista vallare la questione femminile viene trattata per la prima volta da Giacomo Breda sul numero del 7 dicembre 1913 della rivista (La questione femminista), in prima pagina. Prendendo spunto dalla recente ammissione delle donne lavoratrici alla Cassa Nazionale di Previdenza obbligatoria, il Breda osservava che il legislatore per far ciò aveva dovuto derogare ai due importanti istituti della patria potestà e dell’autorizzazione maritale. Il ragionamento del Breda si concentrò sulla questione culturale, che era poi stata al centro delle elezioni del 1913: secondo il Breda avrebbe avuto infatti più titolo a votare una donna di cultura, come la Serao o la Deledda o ancora la Montessori, di un facchino semianalfabeta; l’autore concludeva sostenendo il voto alla donna in quanto segno di civiltà e superamento dell’anima italiana legata tradizionalmente a superstizioni religiose e morali.

Quasi risposta alle riflessioni del Breda, nel maggio dell’anno successivo i socialisti presentarono un progetto di legge. E fu Bortolo Belotti, di cui «La Voce del Brembo» riporta integralmente il discorso sulla questione femminile tenuto al Teatro Nuovo di Bergamo, a porre un freno alla corsa in avanti del collaboratore della rivista. L’articolo Per i diritti della donna conferma l’aspetto decisamente conservatore del pensiero belottiano, ma non reazionario e soprattutto non ipocrita. Ricordiamo alcune tesi dibattute in Parlamento in quel periodo, da quella del popolare Filippo Meda che sosteneva che il voto alle donne si sarebbe potuto concedere perché non avrebbe fatto altro che moltiplicare per due i voti delle precedenti elezioni, senza quindi modificare i rapporti di forza tra i partiti, perché le donne avrebbero votato come i loro uomini di casa. Molti altri, come il liberale Nitti ritenevano invece più probabile che il voto delle donne, più coscienziose dei maschi, avrebbe finito per avvantaggiare i partiti conservatori. Queste, in sintesi, le poco edificanti riflessioni, che portarono poi, nel 1919, al plebiscito parlamentare per il voto alle donne.

La posizione di Bortolo Belotti appare ben più sofferta. Già da anni, cioè dalla ricordata commemorazione del Codice Napoleone, aveva dovuto riconoscere che la parità dei sessi era inevitabile: ”La Rivoluzione (Francese) aveva tolta la supremazia dell’uomo sulla donna: ed ecco il Codice seguire il principio, nei limiti concessi dall’interesse famigliare” (p.17). Moralisticamente, però, il Belotti riteneva che il voto alle donne avrebbe potuto introdurre un eventuale contrasto fra i coniugi che avrebbe potuto portare anche ad una rottura del vincolo matrimoniale. La donna, inoltre, appariva ai suoi occhi fragile e bisognosa di tutela morale e giuridica in una società non ancora in grado di affrontare i rischi della modernità e del progresso: tutti gli interventi raccolti nel volume Politica del costume (ed. Unitas, 1924) sono contrassegnati da questi timori. Egli chiedeva che lo Stato intervenisse per proteggere la donna dall’eventuale abuso dei suoi beni dotali da parte del marito. Belotti riconosceva che la donna si era evoluta ma rimaneva tuttavia convinto che il voto politico non le si addicesse e comunque bisognasse giungere ad esso con gradualità, iniziando per esempio con l’attribuzione del diritto al voto amministrativo, pur con “l’augurio che la donna non avesse bisogno di tanti turbamenti”. Dobbiamo, però, riconoscere al Belotti la comprensione, molto moderna, che il diritto al voto è connesso al riconoscimento generale della parità uomo-donna, per cui l’attribuzione del voto sarebbe stata monca senza la completa revisione del diritto di famiglia, mentre in Italia le due questioni rimasero distinte e tra il diritto di voto e la riforma del diritto di famiglia trascorrono alcuni decenni.

Ancor più decisamente conservatrice, poi, è la visione gerarchica della società, diffusa in tanti articoli, per cui “nessun ente collettivo è possibile senza una gerarchia”. Anche la religione, in questo campo, viene piegata a giustificare la struttura gerarchica e asimmetrica della famiglia (e di conseguenza della società): “L’antico dogma cristiano per cui il marito è il principe della famiglia e la moglie è la sua compagna sottomessa, ma rispettata, ha ispirate le nostre leggi a traverso i secoli. Esso è diventato un concetto fondamentale e cardinale della nostra società. Contro di esse si rompe l’impeto della rivendicazione come la tempesta contro la rupe. La società ha bisogno della famiglia; e la distruzione della potestà maritale e la sostituzione di una eguale potestà dei due coniugi minerebbe la compagine famigliare”. Di converso, noi abbiamo un mondo brembano sulla difensiva, con donne che, come sostiene ancora il Belotti, si sarebbero quasi disinteressate della questione, un mondo tranquillo, quindi solo turbato un poco dalle elezioni del ’13, con una struttura sociale ed economica solida: un mondo tranquillo o una lettura tranquillizzante di quel mondo?

Per tornare, ora, al dibattito nazionale sulla questione femminile, sappiamo come si concluse: dovendo riconoscere l’insostituibile contributo delle donne italiane alla vittoria nella guerra mondiale, l’onorevole Luigi Gasparotto nel 1919 presentò alla Camera dei Deputati la relazione della commissione parlamentare incaricata. Il dibattito parlamentare si sarebbe concluso il 30 luglio con un pronunciamento a larghissima maggioranza a favore dell’estensione del voto sia amministrativo che politico alle donne: tutti i partiti, compresi quindi anche liberali, popolari e fascisti nei primi mesi del dopo guerra erano diventati improvvisamente ben disposti nei confronti delle richieste femministe. Il Belotti fu tra i pochissimi parlamentari a frenare l’entusiasmo che si era creato, ma i suoi emendamenti non furono accolti con la motivazione che altrimenti la normativa sarebbe rimasta praticamente inapplicabile. Il 3 settembre dello stesso anno la legge venne confermata con la precisazione, però, che la partecipazione delle donne all’elettorato politico sarebbe cominciata dalle consultazioni elettorali per la XXVI legislatura: in realtà le donne poterono votare per la prima volta solo 27 anni più tardi, il 2 giugno 1946.

I temi: la guerra tra pacifismo e patriottismo 

Le riflessioni de «La Voce del Brembo» partono da una forte richiesta di considerazione del ruolo degli enti locali e dei loro amministratori. Tutto questo, però, è inserito in un forte senso di nazione che si respira fin dal primo numero del settimanale, che è ascrivibile solo in parte allo sviluppo del nazionalismo durante l’età giolittiana, soprattutto nelle élites culturali facenti capo a D’Annunzio e alle riviste fiorentine d’inizio secolo. Sul primo numero della rivista la breve cronaca della festa zognese per i 7 reduci delle battaglie di Custoza, San Martino e Solferino ci proietta in un contesto di grande fervore popolare per le guerre risorgimentali accentuato dalla recente guerra coloniale in Libia. In una situazione di questo tipo appare straordinaria la posizione del nostro settimanale in merito alla Prima Guerra Mondiale che viene apertamente definita “la più spaventevole delle calamità umane”. A fronte della maggior parte dei periodici italiani volti a sostenere l’immediato ingresso dell’Italia nel conflitto e ad accentuare le manifestazioni popolari favorevoli, «La Voce del Brembo» tende ad assumere una posizione di meditata attesa. L’attenzione venne posta innanzitutto sulle conseguenze negative che la guerra avrebbe avuto sulla nostra emigrazione, già colpita dalle difficoltà economiche di alcuni cantoni svizzeri e della Germania meridionale. Furono proprio i risvolti economici e amministrativi ad occupare lo spazio maggiore della rivista oltre al notiziario settimanale delle battaglie.

Poco per volta si fece strada, sulla scia delle necessità del momento, anche l’idea di una riforma agraria per dar lavoro agli emigranti tornati in patria. Come tutta la stampa nazionale, inoltre, si cominciò a mostrare come in fin dei conti anche gli Italiani, volenti o nolenti, si trovano di fatto già in guerra: si citavano spesso quei soldati trentini, friulani e dalmati che erano costretti a combattere sotto le insegne dell’impero austriaco. Il risvolto locale del coinvolgimento di fatto dell’Italia nella guerra era indicato nella cronaca: il 1 novembre 1914, per esempio, «La Voce del Brembo» dava notizia che durante il bombardamento tedesco di Parigi era stato colpito anche il noto ristorante di tal Amilcare Arrigoni di Olda.

Anche la nostra rivista preparò la popolazione all’ingresso in guerra, ormai prossimo, ma mancò di quell’entusiasmo che cogliamo nella maggior parte delle pubblicazioni nazionali del periodo. I perché si possono evincere da un’intervista rilasciata alla rivista dal Belotti, il quale, dichiarata ormai tramontata la Triplice Intesa, mostrava tuttavia stima per la Germania, a ricordo della cessione del Veneto nel 1866 e ancor più per lo sviluppo economico italiano che era stato favorito dagli investimenti tedeschi (si ricordi anche solo al ruolo avuto dalla Banca Commerciale, controllata da capitale tedesco). Quanto alla questione se fare una scelta di campo o mantenere la neutralità, il Belotti dichiarava di aderire alla linea di Salandra, cioè che fosse meglio per l’Italia attendere lo sviluppo degli avvenimenti bellici, nel timore però che Serbi e Russi potessero conquistare il Friuli, o la Turchia affacciarsi di nuovo sulle sponde orientali dell’Adriatico; inoltre l’Italia non appariva pronta economicamente, militarmente e moralmente ad affrontare una nuova guerra, dopo quella libica.

Le riflessioni di Belotti coincidevano con quelle di una parte considerevole dei deputati liberali di destra. Queste posizioni attendiste sono conseguenza della paura della guerra (peraltro il confine con l’Austria, non dobbiamo dimenticarcelo, correva poco distante dalla nostra Valle), ma per Belotti era frutto anche di una vera sensibilità pacifista degli anni giovanili, che nel tempo si era evoluta. Troviamo una spia di questo atteggiamento ne «La Voce del Brembo», che dallo scoppio del conflitto pubblicò con una certa frequenza articoli di collaboratori esterni, in primis del premio Nobel per la pace Ernesto Teodoro Moneta e del poeta Giovanni Bertacchi, e riportò brevi saggi ripresi da «La Vita Internazionale» del Moneta. E’ utilissimo ricordare ciò, perché è poco conosciuta la partecipazione al movimento pacifista nazionale di Bortolo Belotti, che dopo l’esperienza ministeriale sarebbe divenuto presidente nazionale della Società per la pace e la giustizia internazionale.
La posizione del Belotti e de «La Voce del Brembo» appare in sintonia con quella del Moneta: aperta condanna della politica degli Imperi Centrali, ma anche disconoscimento dell’irredentismo, le cui azioni avrebbero potuto danneggiare l’Italia, speranza nella possibilità per l’Italia di ottenere gli obbiettivi territoriali con la neutralità. In un secondo momento però il Moneta, contraddicendo i propri principi, sarebbe poi giunto invece a sostenere la necessità per l’Italia di approntare un forte apparato di difesa, che si fondasse sui principi della “nazione armata” e ad auspicare la partecipazione militare italiana per rendere più breve e meno cruenta la guerra stessa.

L’evoluzione militarista del pacifismo del Moneta influì certamente sul Belotti. E la stessa «Voce del Brembo» risentì di questi ondeggiamenti, per cui passò dalla difesa della neutralità e dalla critica a quelle forze politiche favorevoli alla guerra e definite con disprezzo “democratiche”, ad un’accettazione della guerra come necessità storica. Siamo pur sempre lontani dalle posizioni dannunziane: non si parla mai del discorso di Quarto dei Mille di Gabriele D’Annunzio o delle sue imprese e l’avvicinamento del Belotti al poeta si ha di sicuro solo con l’impresa fiumana, vista con favore dal nostro parlamentare ed è testimoniata dal rapporto epistolare intercorso in occasione della cessione al poeta da parte dello Stato della villa del Cargnacco (ora “Vittoriale degli Italiani”).

Quello che non si nota nella nostra rivista, e ciò è da attribuire forse anche ad una carenza di idealità della nostra popolazione, è la speranza in una futura federazione europea, che avrebbe dovuto sorgere dal compimento delle aspirazioni nazionali dei singoli popoli. Nel Moneta, che si inserisce nella tradizione federativa di Mazzini, di Garibaldi e di Cattaneo, c’è sempre una fiducia positivistica in un futuro di pacificazione e di collaborazione tra gli Stati europei: tutto ciò non compare invece in Belotti, anche quando venne chiamato a partecipare alla Conferenza Interparlamentare di Parigi del 1916. La sfiducia del Belotti può forse spiegare anche la carenza di sensibilità europea nella nostra valle.

La ricerca storica 

Siamo una gente - sottolineava Bortolo Belotti nel convegno elettorale di San Pellegrino del 1913 - che ricorda la sua storia non ingloriosa: che non è finita, e che vuol rinnovare le sue virtù”. La storia, quindi, come coscienza e stimolo all’iniziativa politica: “D’altra parte ancora non hanno forse titolo e diritto le nostre vallate di riassumersi in un concorde volere e di pretendere la loro parte nella vita del paese, al quale hanno pur dato volontà e cuore e passione?”. Se questo è il pensiero di Bortolo Belotti, allora il “ridire una parola della nostra storia”, che si incontra nell’articolo programmatico della rivista, appare nel suo reale significato, con la storia che viene concepita come struttura culturale fondante della civiltà brembana. Ricordiamo qui che Belotti fin da ragazzo presentava una spiccata passione per la storia, al punto che, ancora studente ginnasiale, si segnalava ad un concorso cittadino, il “Barca-Vitalba” per uno studio su argomento di storia longobarda.

Mentre sui giornali nazionali e di Bergamo si riportavano romanzi di appendice, su ogni numero della rivista brembana vennero pubblicati a puntate articoli di storia locale: si iniziò con lo studio di Carlo Rota Almenno e le sue Vicinie: la pubblicazione, che ottenne parecchio successo, servì certamente ad attirare l’attenzione dei Valdimagnini verso la nuova rivista. Successivamente vennero pubblicati il saggio di Bazzoni I guelfi dell’Imagna ed il Castello di Clanezzo in 19 puntate, quindi di Pasino Locatelli L’Annunziata di Spino. Leggenda artistica” (20 puntate) e Giacomo Palma seniore. Racconto storico (12 puntate). Infine vennero pubblicati Zogno sotto la dominazione veneta (1427-1797) (30 puntate) e Il Vicariato della Valle Brembana Inferiore (1427-1797), per i restanti 9 numeri della rivista, a firma di “Un dilettante di memorie antiche”. Dalla Storia di Zogno del Belotti, ma anche dall’ultima puntata dell’articolo su Zogno sotto la dominazione veneta apprendiamo che l’autore in realtà era Enrico Mangili, curato di Zogno e in seguito, negli anni Trenta, autore di articoli storici per «L’Eco di Bergamo» con lo pseudonimo “P.Tosino”. Su don Mangili, i cui saggi su Zogno sono stati raccolti nel 1983 nel volume intitolato Zogno, non esiste letteratura critica. Si pensa che sarebbe stato ispirato alla ricerca storica dal Belotti e da quello avrebbe ripreso lo stile. In realtà la lettura de «La Voce del Brembo» ci presenta un Mangili che si dedica alla ricerca storica locale diversi anni prima di Bortolo Belotti e che negli articoli presenta già quello stile fluido ed efficace che ritroveremo poi anche nel Belotti, soprattutto della storia di Zogno: i giudizi espressi sono quindi da riconsiderare ed è da ipotizzare invece un deciso influsso del sacerdote sul Belotti.

Non solo: da una prima e superficiale lettura del materiale, la storia di Zogno appare già delineata, buona parte della ricerca d’archivio risulta già fatta, ma soprattutto sono già definiti con precisione la struttura amministrativa del comune in età moderna e quel nesso inscindibile fino all’invasione napoleonica tra momento civile e momento religioso, che è uno dei caratteri salienti della storia bergamasca del periodo moderno e che ha come culmine l’istituto della Misericordia. Il ruolo di Bortolo Belotti nella scoperta della nostra storia, quindi, deve essere riconsiderato. Certamente, però, abbiamo trovato in don Enrico Mangili un maestro del Belotti. E’ interessante anche la considerazione che la ricerca storica in Valle Brembana con P.Tosino, ma anche Carlo Traini, nacque proprio sul finire dell’età giolittiana in relazione ai nuovi compiti culturali che si attribuirono ai comuni e di conseguenza all’importanza data agli ambienti culturali locali, proprio gli stessi che trovarono in Belotti e ne «La Voce del Brembo» il collante e lo stimolo alla ricerca.

Conclusioni: Belotti e le riviste 

Con l’ultimo numero del 1915, il direttore annunciava ai lettori che la rivista si sarebbe trasformata in quindicinale, a causa della crisi economica dovuta alla guerra, con conseguente aumento del costo della manodopera e della stampa, e a causa della censura. La rivista così sopravvisse altri due anni e divenne strumento di informazione anche per i soldati brembani sul fronte austriaco. La rivista inizialmente pubblicò ampi stralci di entusiastiche lettere dei nostri combattenti (di Giuseppe Sonzogni, per esempio), poi solo l’elenco di chi inviava i saluti. Con la rotta di Caporetto i problemi aumentarono enormemente e il 31 dicembre 1917 il direttore avvisò i lettori che la pubblicazione veniva sospesa per carenza di carta per la stampa e diede l’arrivederci ad un futuro che sembra prossimo; anche il Mangili interruppe l’ultimo articolo con un fiducioso “continua”. Si lasciava trasparire quindi che si trattasse di una sospensione assolutamente temporanea e dovuta a motivi contingenti. In realtà alla fine della guerra la pubblicazione non riprese e dopotutto gli avvenimenti dell’immediato dopoguerra ponevano con urgenza al centro dell’azione politica lo Stato in sé, non certo le situazioni locali. Inoltre l'orientamento proporzionalista del Parlamento rese elettoralmente inutile una rivista politica che si rivolgeva alle sole valli Brembana ed Imagna. La nuova legge elettorale, proposta da Filippo Turati con un Ordine del giorno firmato anche da Belotti, prevedeva una circoscrizione elettorale allargata alle province di Bergamo e Brescia: l’Unione Valligiana e «La Voce del Brembo» a questo punto sembravano aver esaurito il loro compito, rimaneva solo il leader, ormai proiettato verso un ruolo ministeriale, ma anche verso la solitudine in cui verrà a ritrovarsi a causa del fascismo.

Una molto parziale ripresa della rivista avverrà con il numero unico del 3 novembre 1919. Caduto il ministero Orlando, il nuovo presidente del Consiglio Nitti aveva fatto introdurre in Italia la prima esperienza di suffragio proporzionale e aveva rivisto i collegi elettorali, per cui ora le valli Brembana e Imagna erano comprese nel più ampio collegio Bergamo-Brescia. Il Belotti che si ripresentava agli elettori non era più nelle condizioni di inferiorità in cui si era trovato nelle precedenti elezioni del 1913: ora era Sottosegretario al Tesoro, era stato il fondatore del Fascio Parlamentare di Difesa ed era un giovane leader del liberalismo nazionale. Pur tuttavia pubblicò ancora un numero della «La Voce del Brembo», in cui presentava pagine di resoconto della sua azione politica e parlamentare e, quasi a riprendere il filo del dialogo con l’elettore brembano, riprendeva (ora con toni più meditati ed equilibrati) le questioni generali del rapporto con il mondo cattolico, della libertà di coscienza, dell’emancipazione femminile (con un nuovo articolo del Breda) e quelle più propriamente locali come la diffusione della polmonite tra i contadini della valle (T. Mocchi), dell’associazionismo a Lenna, dell’approvazione ministeriale del prolungamento della ferrovia fino a Piazza. Ma lo sfondo politico di riferimento risultava decisamente mutato: non si trattava ormai più della Unione Valligiana, ma delle nuove realtà del Partito Popolare e del Partito Liberale Italiano. «La Voce del Brembo» ormai appariva superata ed inutile anche a livello di propaganda politica e la sua riedizione ha ora il sapore non tanto di un ritorno nostalgico al passato, quanto di un omaggio alla Valle e alla sua popolazione.

Come si è potuto notare, la trattazione de «La Voce del Brembo» inevitabilmente diventa riflessione soprattutto su Bortolo Belotti, che visse la politica e la cittadinanza come elaborazione concettuale e come comunicazione. In effetti Belotti fu importante collaboratore di riviste regionali e nazionali, quali «La Nuova Antologia», «Emporium» e l'«Archivio Storico Lombardo», il «Monitore dei tribunali», oltre a «Bergomum». Come Presidente della Società per la Pace e la Giustizia internazionali fu, nei fatti, anche il responsabile de «La Vita Internazionale» e dell’«Almanacco Illustrato Pro Pace». Ricordiamo che discusse con Filippo Meda e Ivanoe Bonomi nel 1930 la fondazione di una rivista di "carattere prevalentemente letterario" per evitare gli interventi arbitrari di un regime politico che si faceva sempre più rigido e soffocante, per "poter consentire di dire quel poco che si potrà dire, come è avvenuto del resto nel Risorgimento". Per quel tentativo il Belotti finì al confino e rimase un sorvegliato speciale del regime fascista, in quanto “persona pericolosa per lo Stato”. Ma per far capire cosa poteva significare per Belotti il giornale, ecco una brevissima frase del diario dell’esilio di Luigi Einaudi, futuro Presidente della Repubblica Italiana: alla data del 27 marzo 1944 Einaudi scrive che Belotti con Tommaso Gallarati Scotti, Casagrande, ecc., “vorrebbe organizzare qualcosa nel Canton Ticino”, quel “qualcosa” sarebbe diventato «L’Italia e il secondo Risorgimento», supplemento settimanale della «Gazzetta Ticinese» e organo degli esuli liberali in Svizzera.

L’azione politica del Belotti finì, quindi, così come era cominciata, con la fondazione di una rivista!

 
 
 

 
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